Accadeva trent’anni fa: il crollo del Palasport di San Siro, teatro di indimenticabili emozioni

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“Milanesi, allegria!”. Così Mike Bongiorno salutò il pubblico accorso in massa al Palasport di San Siro nel giorno della sua inaugurazione, il 31 gennaio 1976, quando per l’importante occasione, sotto il coordinamento di Bruno Beneck, venne organizzata una grande kermesse all’americana, trasmessa in tv, attraverso la celebre trasmissione “Dribbling”, a base di musica, majorettes, ballo liscio, comicità, jazz e – marginalmente – sport. A scendere in pista, tra i protagonisti di questo grande show, furono allora Antonio Maspes, Sante Gaiardoni, Alfredo Binda e Vittorio Adorni, in un clima di grande entusiasmo e di generale euforia.
Ne avevano ben donde i milanesi, quelli in particolare che, al di là delle inutili e stupide polemiche giornalistiche sulla grandezza esorbitante dell’impianto, la presunta obsolescenza del suo progetto e i costi di realizzazione lievitati nel corso dei sei anni impiegati per ultimarlo, avevano perfettamente compreso che la loro città stava avviandosi a diventare l’indiscussa capitale italiana dello sport. Sì, proprio così, e proprio grazie alla tanto vituperata struttura, destinata infatti, nel breve volgere dei successivi nove anni di vita, ad ospitare altrettante edizioni della mitica “Sei Giorni”, oltre naturalmente a grandi eventi di pallacanestro, pugilato e tennis e soprattutto a indimenticabili edizioni dei campionati italiani ed europei di atletica leggera indoor. Il tutto fino alla fatidica notte del 17 gennaio 1985, quando un metro di neve accumulatosi sulla copertura dell’impianto ne fece collassare la volta, squarciando con un violentissimo ed indimenticabile boato la notte tranquilla dei residenti del quartiere San Siro e dando quindi la stura a un’interminabile ridda di polemiche, inchieste, contenziosi, dichiarazioni e promesse di sollecita ricostruzione, che alla fine si risolsero purtroppo in un nulla di fatto.
Nel settembre del 1988 si procedette infatti alla sua definitiva demolizione, che da allora ha lasciato orfana Milano di quello sgraziato Palazzone, tanto disprezzato e insultato dai benpensanti con la pancia piena quanto utile e funzionale alle legittime ambizioni di una città in continua crescita e tutta “da bere”, così come recitava la celebre pubblicità di un amaro. Da allora il gustoso liquore è finito e allo sport milanese di amaro è rimasto solo il triste calice, peraltro svuotatosi progressivamente, in corrispondenza delle tante speranze tradite da dirigenti, politici e sportivi, che non hanno voluto o potuto ridare al capoluogo lombardo un complesso multifunzionale pubblico, in grado di far fronte alle esigenze spettacolari e di base degli sportivi milanesi. Da allora i podisti e i ciclisti in particolare si sono trovati privi non solo della benemerita scuola “Fausto Coppi” ma soprattutto di un essenziale punto di riferimento, funzionale allo sviluppo armonico e complessivo di un’effettiva attività multifunzionale, oggi più che mai considerata strategica e fondamentale in funzione di una potenziale edizione italiana dei Giochi Olimpici, non solo a Roma ma anche e soprattutto di marca lombarda.
Non deve dunque stupire che da trent’anni a questa parte di assoluta attualità continui ad essere il grave problema delle carenze complessive dell’impiantistica sportiva della Lombardia, a cui il Coni, già tra il 1968 ed il 1969, grazie soprattutto all’impulso ed all’iniziativa di un grande milanese come Adriano Rodoni, aveva provato a porre rimedio. E se non si vuole che questa patologia cronica diventi un male incurabile bisogna che, tra i lasciti di Expo, gli impianti sportivi multifunzionali e destinati alla pratica indoor diventino parte consistente di un tesoro da custodire gelosamente.